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Giro d’Italia, nel giorno del prologo un ricordo del Campionissimo in corso Casale

TORINO. Parte oggi il Giro d’Italia con un prologo a cronometro nelle vie di Torino. Non poteva esserci occasione migliore per onorare la memoria del più grande campione di tutti i tempi delle due ruote, Fausto Coppi. Di fronte al monumento di corso Casale, a due passi dal Motovelodromo, monumento che Nino Defilippis (il cit fu anche compagno di squadra di Coppi) e i fratelli Stefano e Angelo Marello hanno voluto dedicare al Campionissimo, si è tenuta una cerimonia alla quale non sono mancati personaggi del mondo dello sport, quali il presidente regionale del Coni Stefano Mossino, amministratori ed ex della Città e della Regione (a partire da Valentino Castellani ed Enzo Ghigo), politici, semplici appassionati di ciclismo e giornalisti (primo fra tutti Beppe Conti, vera icona del ciclismo nazionale).

Alla cerimonia ha partecipato anche il figlio di Coppi, Faustino: assieme alla figura del babbo ha ricordato anche quella dello zio Serse, morto accidentalmente il 29 giugno del 1951, durante lo sprint finale al Giro del Piemonte. Serse infilò con la ruota un binario del tram, cadde e picchiò la testa a terra, a poche centinaia di metri di distanza dal Motovelodromo dov’era fissato il traguardo. Le conseguenze dell’incidente non sembrarono in un primo momento gravi, ma dopo essere rientrato in albergo le sue condizioni peggiorarono improvvisamente e l’infortunio si rivelò fatale: fu colpito da un’emorragia cerebrale e morì a soli 28 anni.

Per realizzare il monumento, inaugurato nel 1997, furono necessari 1.000 quintali di bronzo forgiati dallo scultore Pippo Tarantino: il risultato è una spirale che sale al cielo attorno a una montagna e in cima si trova Coppi. Ai piedi del monumento le pietre di tutte le grandi montagne che seppe domare: Stelvio, Izoard, fino al pavè della Parigi-Roubaix.

Proprio di recente grazie all’interessamento di coloro che hanno promosso la realizzazione dell’opera e grazie all’interessamento del presidente di Circoscrizione Luca Deri, il Comune ha provveduto ad eseguire migliorie al monumento. Oggi è nuovamente fruibile a ammirabile in tutta la sua importanza, come ci ha ribadito Luciano Tomio che ha sottolineato come questo evento sia anche l’occasione “per dare visibilità e importanza alle nostre associazioni ciclistiche, società che con  passione dedicano i loro sforzi al diffusione di questo sport”.

Piero Abrate

A spasso nelle residenze Reali di Torino: Palazzo Chiablese

TORINO. Palazzo Chiablese è uno dei palazzi nobiliari del centro storico di Torino, le cui vicende sono legate alla storia della Casa Reale dei Savoia.
Appartenente agli edifici che costituiscono la zona di comando, è collegato a Palazzo Reale da una passaggio interno e ha l’ingresso principale e l’affaccio storico su Piazza San Giovanni.

Nato su nuclei abitativi preesistenti (alcune tracce di questi ultimi sono visibili in facciata), Palazzo Chiablese risale al XVI secolo e a volerlo è il duca di Savoia Emanuele Filiberto. Situato tra Palazzo Reale e la chiesa di San Lorenzo, all’interno della cosiddetta “zona di comando” (parte del centro di Torino destinata ad accogliere le sedi rappresentative e amministrative del potere sabaudo), la costruzione acquisisce un’unitarietà architettonica a partire dal 1753, quando Carlo Emanuele III (1701-1773) affida al Primo Architetto Regio Benedetto Alfieri (1699-1767) il progetto per la totale rivisitazione della residenza.

La prima proprietà è quella della marchesa Beatrice Langosco di Stroppiana, che lo riceve in dono dal suo amante Emanuele Filiberto. Diviene poi residenza dell’ex cardinale Maurizio di Savoia e della sua consorte Ludovica a partire dal 1642; in seguito vi abiteranno il secondogenito di Carlo Emanuele III, Benedetto Maurizio duca del Chiablese (che dà il nome al palazzo) e altri membri della famiglia reale.

Una veduta di Palazzo Chiablese dalla Piazzetta Reale

Durante il periodo di occupazione francese di Torino è abitato da Camillo Borghese e sua moglie Paolina. Tornato ai Savoia con la Restaurazione, divenne residenza del re Carlo Felice che vi morì nel 1831. In seguito vi abita Ferdinando duca di Genova, secondogenito di Carlo Alberto e nel 1851 vi nasce Margherita, prima regina d’Italia dal 1878 al 1900.

Durante la seconda guerra mondiale, a causa dei bombardamenti, subisce notevoli danni: il tetto venne distrutto insieme a gran parte dei solai del piano nobile prospiciente la piazzetta Reale e via XX settembre; molti arredi vanno persi insieme alle boiseries e agli stucchi. Tra gli arredi che si salvano dai bombardamenti, ma successivamente dispersi, vi è anche una pregiata scrivania a doppio corpo dell’ebanista Pietro Piffetti, esportata senza autorizzazione e finalmente recuperata, nel 2018, dai carabinieri del nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Torino. Dal 1946 appartiene al Demanio.

Tra le parti più significative del palazzo si segnalano lo scalone d’ingresso e gli ambienti interni, connotati da una ricca e raffinata decorazione rocaille realizzata da abili stuccatori di origine luganese scelti direttamente da Benedetto Alfieri. Oggi sede degli uffici della Direzione Regionale per i Beni Culturali del Piemonte e delle Soprintendenze per i Beni Architettonici e per il Paesaggio e per i Beni Archeologici del Piemonte e del Museo di Antichità Egizie.

Dopo i restauri avviati alla fine degli anni Novanta del Novecento, ha riaperto al pubblico alcune delle sale più significative e ricche di arredi, mentre quelle del piano terreno, storicamente destinate ad aree di servizio e quasi prive di decorazioni, ospitano le mostre temporanee dei Musei Reali. Le mostre sono spesso dedicate ai grandi artisti internazionali e permettono al visitatore di compiere un viaggio nella storia e nell’arte, dall’epoca romana fino al Novecento.

Piero Abrate

Dall’unione di due vigne nacque il Parco di Villa Genero a Torino

TORINO. Tra i parchi aperti al pubblico più affascinanti di Torino c’è sicuramente quello collinare di Villa Genero, nato dall’unione di due «vigne»: vigna Colla e vigna Baldissero, la prima acquistata da Felice Genero nel 1858 e la seconda dalla moglie del medesimo nel 1888. La prima vigna comprendeva: una villa, un rustico, una cappella, prati, orti, giardini, viali alberati, mentre la vigna Colla, dove ora è sistemata la scuola materna, comprendeva una costruzione ad uso civile, due case rurali (una si è conservata) serre, giardini prati e il padiglione. Nel 1898 il complesso fu eretto ad ente Morale con il nome «Ginnasio Genero». Nel periodo fascista, poiché la proprietà era passata al Comune di Torino, venne trasformata in parco pubblico e agli inizi degli Anni Trenta vennero effettuati alcuni interventi per separare l’area turistica aperta al pubblico da quella della scuola edificata già dalla fine dell’Ottocento.

Il quotidiano La Stampa il 21 gennaio 1932 enfatizzò l’evento con il linguaggio magniloquente, tipico del regime, parlando del parco come di una magnifica risposta riposante sosta “tanto che per chi va a piedi quanto per chi si vale di automobile o carrozza giacché anche i veicoli potranno entrare nel parco. E qui all’occorrenza si potranno specie di domenica, consumare all’ombra di piante secolari, liete e confortevoli merende”.


Da quel momento, il Parco di Villa Genero divenne  luogo di ritrovo per molti torinesi che vi arrivavano per godersi momenti di relax. Oggi, a distanza di quasi un secolo, quegli oltre 43mila metri quadrati di polmone verde, se non fossero lasciati spesso all’incuria e agli atti vandalici, potrebbero rappresentare uno dei parchi più belli di Torino. In effetti il percorso collinare è un susseguirsi di alberi secolari, viali e vialetti che portano ad una suggestiva balconata da cui il panorama che si può ammirare è uno dei più belli della città.

Il tempietto dalla particolare architettura e simbologia in origine aveva le entrate murate a contava della presenza di due sfingi ai lati, una dipinta sul viso di bianco e l’altra dal viso scuro, purtroppo danneggiate. Gli atti di vandalismo sono ancora purtroppo visibili, ma vale la pena andare alla scoperta di questa oasi di verde fuori dal traffico a circa due chilometri dal centro di Torino perché sta lentamente tornando all’antico splendore. In autunno e in primavera riesce ancora ad offrire atmosfere piuttosto romantiche ed è indicato anche per un buon allenamento fisico essendo molti sentieri in salita. 

Piero Abrate

Il servizio fotografico è di Sergio Donna

Chiara Parella esordisce con un romanzo ambientato a Torino

La figlia sfuggente è il titolo del romanzo di esordio di Chiara Parella, edito da Letteratura Alternativa edizioni, che è da oggi disponibile sul sito www.letteraturaalternativa.it e sui più noti provider dell’editoria.

Il romanzo ruota attorno al rapporto genitori-figli, uno dei più complicati e avventurosi. I due protagonisti, Claudio e Francesca, rispettivamente padre e figlia, sono ingabbiati dal destino in quel legame biologico e obbligato, a cui non possono sfuggire, ma solo arrendersi e sopportare. Fin dal principio, il loro rapporto è complesso, a tratti confuso e certamente ingarbugliato. Gli unici mezzi di comunicazione, che riescono a tenere in vita la loro relazione, costellata di assenze e silenzi, sono le tante cartoline che Claudio spedisce a Francesca durante i suoi viaggi di lavoro e non.

Palliative, ma, allo stesso tempo, fautrici di una distanza che diventa sempre più incolmabile con il passare degli anni; le cartoline significano per Francesca l’unica testimonianza a cui aggrapparsi per combattere contro le sue paure nei confronti del passato e del futuro. Attraverso il passare del tempo, che trascorre tra l’infanzia e la giovinezza, la protagonista racconta la sua vita, scandita dal ritmo della lettura di quelle cartoline paterne.

Romina Tondo, proprietaria della casa editrice LA edizioni, sottolinea l’importanza di questa tematica familiare così delicata, affermando che è “fiera del lavoro portato avanti da Chiara e dalla casa editrice. Il rapporto genitori e figli è quanto mai un argomento attuale e di grande rilevanza. Bisogna dedicare la giusta attenzione e questo libro lo fa con passione e rispetto”.

La prefazione del libro è stata curata dallo scrittore e artista, Pablo T: “Quando ho letto per la prima volta ‘La figlia sfuggente’ – spiega – sono rimasto piacevolmente colpito. La sua scrittura nasce da una necessità, perciò non poteva che uscire un buon lavoro”. La copertina e le illustrazioni all’interno del libro sono a cura di Giulia Cerrato, illustratrice torinese.

L’autrice si augura che il suo esordio possa diventare un mezzo per sensibilizzare i lettori su argomenti, quali le cosiddette “famiglie-allargate” e i loro fragili equilibri, che sono ormai tematiche sdoganate e di grande attualità.

Chiara Parella nasce a Torino il 4 dicembre 1987. Laureata in Scienze e Tecnologie Agroalimentari e del Master afferente. Comincia ad occuparsi di marketing e web, lavorando in aziende farmaceutiche, tra Milano e Torino. Oggi ricopre il ruolo di Product Manager della linea veterinaria, in Candioli Pharma, occupandosi della promozione dei prodotti presso il target veterinario e presso i consumatori attraverso il web, i social network e la stampa. Collabora attivamente con QuiPiemonte.it e PiemonteTopNews, occupandosi di promuovere il turismo di prossimità. Nel 2019 ha aperto il blog Red&Blue insieme a Giulia Cerrato, illustratrice, in cui recensisce libri, racconta aneddoti e scrive poesie, tutto rigorosamente illustrato.

Chiara Parella, La figlia sfuggente, Letteratura Alternativa Edizioni, pag. 174, euro 14,90

Un abbraccio all’amico Angelo Caroli, sportivo, giornalista, scrittore e poeta

Angelo Caroli ci ha lasciati all’età di 83 anni. Da anni soffriva di una malattia degenerativa ed era ricoverato in una struttura torinese. Con lui ho condiviso gli anni più belli della mia carriera giornalistica nella redazione di Stampa Sera. Erano gli Anni Ottanta e Novanta. Il giornalismo era innanzitutto passione, desiderio di comunicare, di stupire, condividere. Gomito a gomito abbiamo apprezzato il nascere del giorno, perché a quei tempi i giornali della sera (oggi non esistono più se non nella memoria di chi ci ha lavorato) avevano orari simili al primo turno della Feroce (la Fiat, per intenderci). Quando le rotative dei giornali del mattino avevano cessato di stampare l’ultima ribattuta, noi giornalisti di Stampa Sera cominciavamo a pigiare sui tasti delle vecchie Olivetti, per raccontare storie che i giornali del mattino avevano lasciato nel dimenticatoio. Tu Angelo, capo servizio dello sport, già alle 6 del mattino eri pronto a stupire con il tuo sapere di sportivo provetto. E pochi colleghi erano in grado di tenerti il passo in fatto di strategie, moduli, sistemi e formazioni da mandare in campo.

Eri juventino perché la Vecchia Signora ti aveva accolto e nelle sue fila, accanto a campioni come Boniperti e Sivori, avevi conquistato uno scudetto. Un sogno che si era avverato dopo essere stato campione di atletica leggera e recordman italiano nel salto in lungo, categoria Juniores. Ma le soddisfazioni erano continuate anche una volta appese le scarpette al chiodo. Da protagonista eri diventato cantore delle imprese sportive, prima sulle colonne del Tuttosport, poi su quelle di Stampa Sera, infine, alla soglia della pensione, nella redazione de La Stampa. Parallelamente all’attività giornalistica avevi continuato a coltivare anche la passione per la poesia e per la narrativa. Quante le serate trascorse assieme a reading, presentazioni, disfide letterarie, convegni, dibattiti. Eri competente e poliedrico, tanto da essere in grado di dedicarti anima e corpo nello stesso periodo a un libro di saggistica su Trapattoni o Pantani e a un romanzo dalle tinte noir o gialle.

Angelo Caroli (a destra) a cena con i colleghi di Stampa Sera

L’ultima volta che ci siamo visti nella struttura che ti ospitava mi avevi dato una carezza. Qualche mese dopo sarebbe scoppiata la pandemia e non sarei più potuto venire a trovarti. Quella carezza ora la sento sulla mia pelle. Lieve e paterna. Mi mancheranno le tue paterne lezioni di calcio e di tattica, i voli pindarici tra crepuscolari ed ermetisti. Mi mancherà la tua voce e il tuo sorriso. Ora da lassù continua a vegliare su di noi. E dai un bacio a Marilù che da anni attende di poterti riabbracciare.

Gomito del tennista, quando il dolore è la spia di un problema più grave

Per tutti gli amici tennisti che tornano a praticare il tennis dopo il lockdown, riporto questa breve intervista al dottor Roberto Leo, responsabile della Chirurgia di gomito e spalla dell’ASST Gaetano Pini-CTO di Milano

Tra i primi sport tornati praticabili dopo le restrizioni durante la pandemia, provocata dal Covid-19, c’è il tennis. Uno sport che dona un ottimo tono muscolare e allena anche la mente, ma che qualche volta può provocare dolore al gomito: un fastidio molto diffuso, tanto da essere denominato comunemente ‘gomito del tennista’. Il dott. Roberto Leo, responsabile della Struttura Semplice di Chirurgia di gomito e spalla dell’ASST Gaetano Pini-CTO, per anni nel team del CONI, spiega come si sviluppa l’infiammazione che genera il dolore e qual è la terapia.   

Dott. Leo, quando si parla di gomito del tennista a cosa si fa riferimento?

Con questa espressione si fa riferimento a una infiammazione dolorosa dei tendini che collegano i muscoli dell’avambraccio alla parte esterna del gomito, il cui nome scientifico è epicondilite. Viene comunemente detta ‘gomito del tennista’ perché la natura di questa infiammazione è da ricercarsi nel carico funzionale costante e dell’usura dei tendini dovuto al ripetersi di gesti ad alto impatto meccanico, come avviene per i tennisti quando devono colpire la palla. Il gesto atletico impone ai muscoli una contrazione esplosiva e ai tendini una conseguente trazione. Ma questa patologia può colpire anche altri soggetti come alcune categorie professionali che sottopongono i tendini a sovraccarico, come gli operai delle catene di montaggio, gli operatori edili, ecc. provocando lo scompaginamento della struttura delle fibre e un processo di infiammazione cronico: è come se il tendine si fosse rotto, ma non lo è.

Quando il paziente che prova dolore al gomito deve preoccuparsi?

Quando percepisce il fastidio al gomito anche a freddo. Sarà poi la visita di uno specialista ortopedico o fisiatra a stabilire se si tratta di questa patologia e a valutarne il grado di gravità.

Come può intervenire lo specialista?

L’ortopedico può sottoporre innanzitutto il paziente a una terapia che serva a ridurre i livelli di infiammazione. È utile sottoporsi sin da subito alla crioterapia, ossia banalmente raccomandando l’uso del ghiaccio localmente. Possono poi essere prescritte anche terapie fisiche come le onde d’urto focali, la Tecarterapia che sfrutta un campo magnetico, la laser terapia o la fisioterapia intesa come adeguata terapia manuale di supporto eseguita da un terapista della riabilitazione. A proposito di fisioterapia, è importante che gli sportivi a livello agonistico, come avviene ai Giochi olimpici, siano costantemente seguiti da un terapista della riabilitazione per tenere l’infiammazione sotto la soglia ed evitare che il tendine si scompagini. 

Quando invece è necessario l’intervento chirurgico e come si svolge?

L’intervento deve essere la cosiddetta “ultima spiaggia”, quando tutte le possibili terapie hanno fallito. Il primo livello di intervento avviene mediante l’infiltrazione di fattori di crescita, derivati dal sangue o dal grasso sottocutaneo. Essi stimolano le cellule tendinee in senso riparativo inducendo in questo modo un processo naturale, perché il nostro corpo è spesso in grado di ‘ripararsi’ autonomamente, come avviene con i tagli sulla cute, per esempio. Il secondo livello di intervento consiste nell’intervento chirurgico vero e proprio nel quale si “rivitalizza” la zona dell’osso sul quale i tendini sofferenti si agganciano; in tal modo il micro sanguinamento locale che si produce, stimola al massimo livello i processi di riparazione spontanea dei tendini.

Dopo quanto tempo dall’intervento il paziente può tornare alle proprie attività?

Molto dipende dall’età del paziente e dalle sue condizioni di salute generali. Più il soggetto è giovane, minore sarà il tempo di ripresa. Serve comunque almeno un mese di riposo per tornare alle attività della vita quotidiana e dai tre ai sei mesi di stop per tornare a fare sport.

Ci ha lasciati Beppe Barletti, volto storico della Rai torinese

TORINO. Era andato in pensione nel 1993 e tanti giovani di lui non possono ricordarsi, anche perché i pochi frammenti dei vecchi “Novantesimo Minuto” e “Domenica Sprint” che girano sul web non gli rendono giustizia. Beppe Barletti aveva 92 anni e alla Rai ci era entrato dopo essersi fatto le ossa nelle testate torinesi. Aveva iniziato a scrivere giovanissimo su “Il Piccolo Commercio’, giornale dei venditori ambulanti di Torino al mercato di Porta Palazzo. Fiero lo ripeteva agli amici e ai colleghi: “Mio padre era proprio uno di loro, un mercatale. E se sono diventato giornalista, un po’ del merito lo devo anche a lui”.

Dopo quell’esperienza era approdato come collaboratore a Stampa Sera dove ci era rimasto per ben sette anni. Dopo una breve parentesi nell’azienda di famiglia (il titolare era il padre della sua prima moglie) era riuscito ad entrare in pianta stabile alla Rai di Torino. “Il merito era stato di Gino Rancati, un grande del giornalismo torinese. L’unico che dava del tu ad Enzo Ferrari”, ricordava sempre agli amici.

Nella sua lunga e intensa carriera si era occupato principalmente di sport (dal calcio all’automobilismo, dall’atletica al basket), ma all’occorrenza era sempre stato pronto a gettarsi a nella mischia che si trattasse di cronaca nera o di commenti politici. Era stato autore anche di pregevoli reportage dall’estero, come quello sul lago Nasser, creato dopo la costruzione della diga di Assuan in Egitto. Tra i servizi che gli erano rimasti impressi c’era soprattutto la strage dei Graneris a Vercelli. In un intervista di qualche anno fa a indiscreto.info aveva raccontato: “Ricordo come fosse oggi il momento in cui entrai in quella casa con dentro morti marito, moglie, figlio e nonna, con questa ragazza dallo sguardo perso nel vuoto e il tenente Fornasier che mi disse subito: Non si faccia prendere dalla compassione, Barletti, l’assassina è lei”. Eppoi, tante interviste importanti, a partire da quella al grande cardiochirurgo Chris Barnard.

Sicuramente Beppe Barletti è stato il giornalista di una volta, nel senso migliore dell’espressione, quello che raccontava con proprietà di linguaggio cose che nell’era pre-web la gente non poteva già aver saputo in tempo reale. Come figura era l’emblema di una certa piemontesità seria ma non seriosa. Da qualche anno era rimasto vedovo e raramente qualcuno suonava al portone della sua abitazione di via Fidia a Torino per andarlo a trovare.

Smart working, 7 lavoratori su 10 soffrono di lombalgia e problematiche posturali

Dagli esperti alcuni consigli per prevenirle e curarle: fare delle brevi pause almeno ogni 30 minuti di lavoro, compiere esercizi di mobilità muscolare, munirsi di una sedia ergonomica e creare una routine rilassata. Sono questi alcuni dei consigli degli esperti per prevenire le più frequenti patologie legate allo smart working al tempo del Coronavirus: da ricerche internazionali è emerso come il 72% dei lavoratori soffra di lombalgia

TORINO. L’emergenza Coronavirus ha costretto milioni di persone, in Italia e all’estero, a lavorare da casa attuando la pratica dello smart working. Uno scenario strettamente correlato alle numerose problematiche posturali dovute a un periodo prolungato d’inattività: basti pensare che secondo una ricerca della World Health Organization pubblicata sul portale britannico Daily Mail il 72% dei lavoratori intervistati ha ammesso di soffrire di lombalgia, acutizzatasi in questa fase di quarantena. E ancora, l’utilizzo scorretto di smartphone e PC provoca a lungo andare quello che i britannici chiamano “tech neck”, ovvero il collo segnato dalla postura tipica di chi china il capo e che, secondo un’indagine pubblicata sulla BBC, colpisce soprattutto i millennial. Attenzione anche alla salute oculare: lo schermo va tenuto all’altezza degli occhi per evitare ulteriori problematiche alla vista.

Ma quali sono i consigli degli esperti per prevenire e curare le patologie legate allo smart working? La prevenzione inizia a tavola con un regime alimentare sano ed equilibrato per combattere la sedentarietà e continua prestando attenzione all’utilizzo di sedie ergonomiche adeguate al tratto lombare, facendo inoltre delle brevi pause almeno ogni 30 minuti di lavoro. Fondamentale è anche compiere esercizi di allungamento per la mobilità muscolare e seguire una routine rilassata. Per curare la lombalgia, infine, un valido aiuto arriva dalla laserterapia che agisce direttamente sulla componente infiammatoria, riducendo alla radice il dolore associato”.

Le problematiche più diffuse

Al primo posto spicca la lombalgia, che colpisce il 52% dei soggetti, spesso dovuta a posture scorrette su sedie che comprimono in maniera eccessiva le vertebre lombari. A seguire le crisi vagali, che interessano il 24% delle persone, accompagnate da senso di nausea, spossatezza e vertigini, e cervicalgie, che riguardano il 20% dei lavoratori e provocano intorpidimento e formicolio al collo. Ma non è tutto, perché fissare lo schermo di dispositivi elettronici per un periodo di tempo prolungato può causare disturbi astenopici come secchezza oculare, affaticamento, senso di bruciore e visione offuscata.

I 10 consigli degli esperti

Fare una pausa almeno ogni 30 minuti e muoversi in giro per la casa: è fondamentale per evitare una stasi muscolare legata a prolungati periodi di inattività e rimettere in moto la circolazione sanguigna.

Munirsi di una sedia adeguata al tratto lombare: le posture scorrette sono spesso dovute a postazioni non ergonomiche. Utilizzare una sedia da ufficio oppure autotrattarsi con cuscini o rialzi che allineino le vertebre è utile a prevenirle.

Attenzione allo sguardo fisso rivolto verso il PC: lo schermo andrebbe tenuto alla stessa altezza degli occhi in modo da evitare disturbi astenopici e rigidità nel tratto cervicale.

Effettuare esercizi dinamici di mobilità: compiere il cosiddetto “allenamento da scrivania” innalzando le braccia verso l’alto o effettuando degli squat aiuta a mantenere attivo il comparto muscolare.

Creare uno spazio di lavoro adeguato: è consigliabile lavorare seduti con le braccia appoggiate sulla scrivania, favorendo il giusto distanziamento tra i polsi ed evitando di lavorare sulla poltrona o sul letto.

Non sottovalutare l’importanza di un regime alimentare equilibrato: la prevenzione inizia a tavola con una dieta sana che prediliga fibre, frutta e verdura in modo da combattere la sedentarietà prolungata e il rischio di sovrappeso.

Creare una routine mattutina rilassata: è consigliabile mantenere ritmi e orari regolari, iniziando a lavorare o studiare all’orario consueto e terminando alla stessa fascia oraria.

Idratarsi è fondamentale: tenere sempre a portata di mano una bottiglietta d’acqua aiuta a regolare la temperatura corporea, favorisce la digestione e l’eliminazione di tossine in eccesso.

Assumere una giusta postura anche a letto: riposare bene aiuta a essere meglio concentrati e produttivi. Per questo motivo è consigliabile dormire in posizione supina con un cuscino sotto le gambe oppure di fianco con un cuscino tra le gambe.

Un valido aiuto arriva dalla laserterapia: grazie al processo di fotobiomodulazione della Theal Therapy è possibile recuperare in tempi brevi da lombalgie e altre problematiche posturali.

Addio al collega Bruno Bernardi, per tutti semplicemente Bibì

TORINO. Si è spento oggi a 79 anni Bruno Bernardi, detto “Bibì”, storica penna della Stampa che ha dedicato la sua carriera giornalistica allo sport torinese. Figlio di un tifoso del Grande Torino, si era convertito alla fede bianconera, ma aveva mantenuto salda la simpatia per il Toro. Nella sua carriera, infatti, aveva sovente sottolineato di sentirsi il “padre morale dello scudetto granata del ’76”, perché a Pianelli e Bonetto gli acquisti di Pecci e Caporale li aveva consigliati lui.

Negli Anni Ottanta era diventato un volto noto della tv anche per le sue ospitate al “Processo del Lunedì” condotto da Aldo Biscardi, assieme ad altri colleghi illustri come Piero Dardanello e Gianni Romeo e partire da quel periodo per un ventennio siamo stati colleghi alla Stampa. Di lui ricordo soprattutto le chiacchierate in tribuna stampa allo Stadio delle Alpi o agli allenamenti dove sovente ci trovavamo a parlare di tatticismi, cercando di anticipare formazioni, pronosticando risultati e pagelle. Con lui avversario ho disputato anche interminabili sfide tra giornalisti simpatizzanti granata o bianconeri sul campetto dello Sporting. Fu l’unico giornalista invitato da Maradona al suo matrimonio e di questo andava fiero. “La serietà paga, caro Pierino”, mi ripeteva. In effetto il fuoriclasse mal sopportava in genere la stampa, ma con “Bibì” era nato un feeling particolare. Quando iniziava la sfida mi si avvicinava ripetendo “Occhio al tunnel”. E irrimediabilmente qualche attimo dopo faceva passare lesto il pallone tra i miei piedi e con uno scatto improvviso s’involava verso la porta.

DBruno è stato anche un abile scrittore che ha avuto l’onore di produrre la biografia di Gigi Riva, oltre a tantissimi altri libri di successo, gran parte dei quali dedicati ai protagonisti della Juve a partire da Boniperti. Da tempo era gravemente malato e ultimamente era stato ricoverato all’ospedale Mauriziano. Alla sua famiglia le condoglianze mie e della redazione di Piemonte Top News.

Il 16 maggio di 44 anni fa l’ultimo scudetto granata

Il 16 maggio del 1976 grazie al pareggio casalingo con il Cesena (1-1) il Torino conquistò l’unico scudetto conquistato negli ultimi 50 anni, dopo la “striscia” strepitosa realizzata dagli Invincibili. Il filmato del gol che regalò il tricolore a Pulici e compagni.

TORO, LASSÙ QUALCUNO TI AMA ❤️⁣⁣⁣⁣Il 16 maggio 1976 il Torino conquistava il settimo scudetto della sua storia, il primo ed ultimo del dopo Superga.⁣ 🇮🇹⁣⁣⁣Ricordiamo quel giorno con le parole di Pulici in un’intervista di qualche anno fa: “Spero che ci sia qualcuno che mi rubi un po’ di tifosi, non perché io non li voglia. Perché quando abbiamo vinto lo scudetto non abbiamo rubato i tifosi al #GrandeTorino: abbiamo rinverdito la sua storia”. ⁣⁣⁣⁣#Torino #OnThisDay #AccaddeOggi #scudetto #SerieA #1976 #16maggio #Pulici #Graziani #Radice #Sala #Zaccarelli

Pubblicato da Toro News su Sabato 16 maggio 2020

Mole Urbana, il quadriciclo da noleggiare a Torino arriverà entro fine anno

Arriverà entro la fine del 2020 Mole Urbana, il quadriciclo elettrico, progettato da Umberto Palermo, fantasioso designer torinese che in questi ultimi anni ha proposto prototipi di vetture sportive e one-off che non sono sicuramente passate inosservate. Il nuovo veicolo green, 100% made in Italy, è progettato per circolare in città: ha infatti un’autonomia variabile da 75 a 150 km, a seconda delle versioni, e non può superare i 50 km all’ora, data la sua natura di quadriciclo per le città.

Mole Urbana non sarà in vendita, ma si potrà solo noleggiare. Si potrà guidare già a 14 anni. Per i giovanissimi è prevista un’app che monitora la guida e che consente anche di avere una rata del noleggio variabile.

Il progetto del designer Umberto Palermo, che ha disegnato il quadriciclo, è a buon punto e, quando l’emergenza Covid-19 sarà finita, inizierà la produzione. Sono già pronti i primi prototipi e gli obiettivi sono stati delineati: 50 pezzi verranno realizzati entro quest’anno, altri 150 nel 2021, per arrivare a 200 nel 2022 e a 300 nel 2023.

La forma di Mole Urbana è vagamente retrò, una carrozzeria che ricorda i modelli di inizio ‘900 con profili di alluminio e ispirata agli infissi dei grattacieli. Un quadriciclo modulare (da 1 a 3 posti) a emissioni zero in tre taglie: Small lunga 3,2 metri e larga 1,49, Medium lunga 3,4 metri e Large lunga 3,7 metri. Gli interni sono modulari. Il volante è una cloche come quella di un aereo, la plancia è fatta da alveoli di cartone pressato con contenitori per piccoli oggetti e borse della spesa. Per ciascun occupante c’è un monopattino elettrico che si ricarica mediante la dinamo collegata alle ruote.

Leggende piemontesi: la “faia” della Val Soana, un po’ strega, un po’ fata

Al confine fra bene e male, mezza fata e mezza strega, la faia è un essere leggendario dalle sembianze di donna che anticamente insegnava l’uso appropriato di un gran numero di erbe medicinali ai pastori delle vallate canavesane, così come l’arte della lavorazione del latte. Ma non solo. Avrebbe insegnato anche il segreto di ricavare dal latticello (laità in dialetto), un prodotto ancor più importante del burro e del formaggio.

Qualche montanaro giurava che si trattasse di un personaggio realmente esistito, ma che disgraziatamente un giorno, forse presa da un istinto materno, avesse rapito un bimbo. Indignati i montanari le avrebbero dato una caccia spietata, sicché essa per sfuggire alla morte sia stata costretta ad abbandonare la vallata. Ancora oggi in Val Soana, sopra una parete di roccia assai ripida, c’è una caverna piena di incisioni dove si dice che abbia transitato la fata in questione. Infatti è chiamata Casa della Faia.